Chiunque abbia calcato i campi di calcio, anche quelli scalcinati e amatoriali di periferia, conosce una delle regole mai dette del pallone e cioè che i rigori li sbaglia solo chi ha il coraggio di tirarli. Assunto non da poco nell’epoca dello sport-spettacolo, ipercompetitivo e prestazionale, dove contano solo numeri e record, dove non paiono scorgersi alternative alla vittoria e al successo. Senza scomodare Francesco De Gregori e il suo Nino, il film Il Divin Codino ha il pregio di restituire normalità a un mondo scivolato negli eccessi, di affondare la lama nella fragilità umana e in quell’equilibrio necessario per non affogare travolti dal dolore e dall’errore, da quell’ingiustizia di fondo (divina, per certi versi), che sola è in grado di perpetrare la magia dell’imprevedibilità dello sport.

Il film su Roberto Baggio firmato da Letizia Lamartire, reso disponibile su Netflix e frutto della collaborazione tra il colosso dello streaming e Mediaset (ultimo di una serie di altri progetti come Ultras, Sotto il sole di Riccione, Sulla stessa onda, segni di un’inedita e sempre più rilevante sinergia tra editori televisivi tradizionali e nuove piattaforme), è un’immersione in un passato recente, ma tale da apparire lontano, frammentato, sfilacciato come i ricordi quando non sono nitidi eppure ben saldi nella memoria collettiva.

Il rapporto con il padre

Roberto Baggio ha le sembianze timide di Andrea Arcangeli, che dà volto e cuore a un ragazzo della provincia veneta con il sogno di ogni bambino cresciuto a pane e pallone in un paese dove il calcio è sfogo, religione, immaginario: vincere i Mondiali battendo il Brasile in finale. È anche la (presunta?) promessa che a soli tre anni il piccolo Roberto fa al padre Florindo, un sempre più duttile Andrea Pennacchi, deluso dal 4-1 subito dalla nazionale contro Pelè ai campionati messicani del 1970; è il cuore di un rapporto, quello con il padre, che è conflittuale e tenero, scontroso e protettivo come deve essere anche quando sei «il 18enne più pagato d’Italia» e rischi di non accorgertene.

Il Divin Codino procede per gradi individuando tre fasi dell’ascesa del campione di Caldogno, scandite da scatti temporali di sei anni; l’esplosione a Vicenza e il primo infortunio contro il Rimini di un giovane Arrigo Sacchi quando già aveva firmato per la Fiorentina, i Mondiali americani del 1994 in cui diventa idolo e martire di una nazione, il finale di carriera a Brescia con mister Carletto Mazzone (interpretato da Martufello) che lo reinventa leader, fino alla delusione per la mancata convocazione ai Mondiali del 2002. Tre atti che grazie al lavoro di scavo e scrittura di Stefano Sardo e Ludovica Rampoldi (già artefici della trilogia 1992/1993/1994 sul periodo di Tangentopoli) diventano anche tasselli di un’epoca di cui la colonna sonora che spazia dagli Oasis agli Smashing Pumpkins certifica fermenti e delusioni.

Vecchie ruggini

Al rapporto controverso con Arrigo Sacchi (ma anche con Trapattoni che non lo porta in Giappone e Corea) viene riservato naturalmente ampio spazio, come avvenuto con la relazione burrascosa tra Totti e Spalletti nella serie Speravo de morì prima; che gli ex calciatori abbiano scoperto nuovi linguaggi per regolare vecchie ruggini? Il tecnico romagnolo, interpretato da Antonio Zavatteri, è burbero con Roberto, da profeta qual è del primato del collettivo sul talento del singolo, anche quando il “Codino” più famoso d’Italia trascina la propria nazionale in finale a suon di gol. Un Sacchi intransigente e maniacale, che usa il calcio come metafora in un «paese incapace di cambiare», che ricorda ai calciatori che «siamo brutti perché pensiamo solo a noi stessi», cui si contrappone la leggerezza schiva di un campione silenzioso, attratto dalla caccia e dal buddismo, che nella fede e nella preghiera trova una serenità incompresa, inizialmente respinta anche dalla moglie Andreina (Valentina Bellè). Campione di solitudine, in quel Mondiale agrodolce segnato dall’umiliante sostituzione con la Norvegia (il siparietto celebre del «ma quello è matto» trova una sua sublimazione nel film), dall’infortunio in semifinale, dalla partita thrilling con la Nigeria, tutti episodi che vengono ricostruiti con una grafica in cui realtà, finzione e videogioco sembrano fondersi. Usa ’94 come spartiacque di una carriera e di un’industria del calcio in sommovimento, con il campione triste, solitario y final che sembra uscito dalla penna di Osvaldo Soriano e che si carica sulle spalle le speranze di una nazione sull’orlo di una crisi di nervi; la cavalcata verso la finale che s’interrompe sul dischetto di Pasadena è estasi e ferita allo stesso tempo, il compendio intimo di un giocatore unico che sul traguardo frantuma il sogno del padre, ma diventa figlio, fratello e amico di un popolo intero.

Il Baggio di Netflix ci trasporta nella dimensione di una “rivoluzione umana”, come il titolo del saggio che l’amico musicista gli regala per introdurlo al buddismo; una rivoluzione che passa dalla consapevolezza che il pallone non è tutto, forse, ma è molto, consegnandoci un’icona che è stata di molti e di nessuno. Non è facile realizzare prodotti di finzione su personaggi sportivi, spesso anche qui si scivola pericolosamente in un ritratto approssimativo e incerto, in un’ansia citazionista che alternativamente eccede o nasconde, in rappresentazioni innaturali delle azioni di gioco; ma ci basta riscoprire l’umiltà del mito di almeno un paio di generazioni e scorgere quell’”uomo dietro il campione” come canta Diodato, per perdonare tutto, anche quel rigore che qualcuno doveva pur avere il coraggio di calciare.

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